LE IDENTITA' DEL CIELO
di Michela Zanarella - Lepisma Edizioni
Ed eccoci arrivati di
riconoscimento in riconoscimento all’ottava pubblicazione della Poetessa dell’Assoluto
, Michela Zanarella; padovana di origine, risiede a Roma, pluripremiata e
tradotta in quattro lingue, membro di giuria di importanti concorsi letterari,
scrive su testate giornalistiche ed è in generale persona poliedrica ed
eclettica, che si muove con disinvoltura da encomio nell’attuale panorama
letterario. Comincia a scrivere nel 2004 e riscuote subito grande plauso dalla
critica e dal pubblico, fino ad essere accostata ad Alda Merini, nel cui sito
sono pubblicate alcune sue poesie. Il suo cuore batte pure per Pier Paolo
Pasolini, cui dedica sempre momenti di toccante riflessione, che sono anche inseriti nel sito dello stesso grande della
letteratura.
Lungo sarebbe ripercorre la
varietà delle attività svolte e dei successi arrisi, per i quali rinvio al suo
blog: http://www.michelazanarella.it/,
mentre io mi concentro nella recensione dell’ ottava fatica, Le identità del
cielo,edito da Lepisma nella collana diretta dal grande poeta Dante Maffia,
pubblicazione ottenuta come premio al Concorso Internazionale di Poesia
Tredici, indetto dal Centro di Poesia Contemporanea di Roma.
La silloge poetica affronta
questioni squisitamente ontologiche e teleologiche entro la struttura classica
della ring composition : si apre e si chiude con interrogativi profondi e
pregni di umano sentire sul valore della vita e sul perché di questa
dimensione.
“Viviamo
Dove si uniscono elementari
polveri
A linguaggi materni,
ascoltando le diverse identità
del cielo
e le rotte di secoli
disinvolti.”Versi leggeri, classici e moderni al contempo,col gusto delle assonanze
e delle allitterazioni che conferiscono musicalità al testo che sembra
dilatarsi e restringersi come l’orizzonte in fuga; avverto forte e pungente il
richiamo al primitivo materno, a quel liquido amniotico che ci accolse nel
grembo, come polveri semplici e schiette, inseguendo il sogno dell’infinito
cielo mentre i secoli disinvolti procedono. “Che cos’è la vita?” si chiede la
Poetessa nella poesia di chiusura della silloge; bella domanda, viene da
pensare, ma è la domanda di senso di qualunque essere umano degno di tal nome.
Ecco che la poesia si fa universale perché attraversa interrogativi che ci
accomunano, superando qualsiasi pregiudiziale barriera. La vita è un ossimòro: Amore e sofferenza, pioggia e
fango, odore del cosmo e fuoco limpido che si uniscono in callidae iuncturae,
ma su tutto primeggiano le amniotiche piogge a rassicurare “atmosfere di
fango”. Forte è il richiamo al primitivo femminino , alla Madre Terra e alla
Madre naturale, cui rivolge versi chi si fermano in gola e commuovono le fibre
più intime dell’essere:” L’amore che ho per te
è nodo in gola
al mio andare fragile”.
L’essere umano è fragile per
definizione , ma si rafforza nei rapporti parentali, in un amore ineffabile che
è calore ed altro ancora, che è Tutto ciò che di più profondo si possa
concepire. Metterei questa poesia accanto a quella di Ungaretti alla madre, la
madre in cima alle priorità affettive. Onnipresente è la riflessione sul Tempo,
ma non il “reo” tempo foscoliano, ma quel tempo che unisce le universe
generazioni nello scorrere silenzioso dei secoli, mentre l’ ieri si riconduce
all’oggi in una intensa comunione affettiva.
Mi sembra che la Poesia di
Michela abbracci l’umanità tutta dolente o gioiosa di fronte a questo miracolo
che è la Vita,con tutto il rimpianto, il dolore del non ritorno che questa
comporta; la vita è anche questo: “estasi senza ritorno”, perché l’estasi è un
momento di estrema esaltazione del cuore, mentre si ricade nella solitudine, ma
ritornano poi le “materne trasparenze” a
cingere l’avvenire. L’estasi è alla Montale la “ maglia nella rete che ci
stringe” un momento di folgorazione della mente, ma la soccorre quella fede,
che l’ateo Montale non ebbe, e “La vita ha bisogno del Verbo”, sì, del “verbo
della luce” per non vivere in penombra, ma lasciarsi attraversare la carne
dalla luminosità di quel Dio in cui si ripone la Fede infinita di Michela.
Allora “Ogni croce è l’eco del tuo sangue
Ed il Tuo sangue, Signore,
ha urlato amore a tutte le razze
ha perdonato l’inferno e le
forche”.
Nel silenzio della contemplazione
Dio c’è , c’è un Dio pascaliano, ed è “…uomo
Che chiede all’uomo
di ascoltare”. Dio è il verbo che si fa carne e spazza via
l’inferno della terra nera. La consolazione religiosa unita all’eterno
femminino fanno di Michela una donna forte nella fragilità ed il tempo è un
ripetersi “di età ed ombre in attesa”allora “si sta” sospesi come l’aria,
leggeri, netti e puliti. Quello “ stare” ricorda tanto lo “stare”ungarettiano
che condivide con Michela la fede, nella sua estrema conversione. C’è
differenza tra l’essere” e lo “stare”? Ebbene sì , perché il primo allude ad
una condizione forte e permanente, il secondo alla precarietà e alla finitezza
della condizione umana. I versi di Michela stanno, appaiono e scompaiono , si
allargano e si restringono, cadono e si rialzano, e sono la metafora e la
metonimia dell’uomo in perenne divenire. Un divenire che non occulta , ma anzi
rafforza, le convinzioni di fondo: “L’infinito si riconosce
nella staticità di luce
a maturare”. Potrei continuare ad
infinitum, ma svelerei tutte le trame di
questo viaggio della mente della Poetessa , vi anticipo soltanto che non
mancano richiami a Monteverde pasoliniano, ad Alda Merini, ad un’amica in una
poesia che vibra di umana compartecipazione al dolore.
Non posso che rallegrarmi per
l’armonia dei suoni , dei colori, delle immagini di cui questa silloge si orna
augurando che essa vinca “ di mille secoli il silenzio”.
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