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mercoledì 11 dicembre 2013

TOMMASO OCCHIOGROSSO ospite a "scritturati" META' CARNE, META' RICORDO la sua ultima pubblicazione - l'intervista per "scritturati" di Vincenzo Monfregola

INCONTRO CON TOMMASO OCCHIOGROSSO
a cura di Vincenzo Monfregola

Ospite a “scritturati” Tommaso Occhiogrosso autore della David and Matthaus Edizioni, lascia prima della maturità il Seminario per tornare a casa, in famiglia,  si ritrova poi  in una compagnia teatrale. Origini di tradizioni, terra di sacrifici e soddisfazioni. Un ragazzo che ha scrutato se stesso riconoscendo per cosa veramente si respira di  vita.

Nasci a Bari, terra di mare, terra di sole ma anche di costumi e tradizioni, Tommaso Occhiogrosso quanto ha delle sue origini nella propria quotidianità.
“Quotidianamente” non lascio mai una giornata senza aver sproloquiato con la mia lingua d’origine. Adoro la mia terra, i dialetti in genere, le usanze e qualche buon proverbio tramandato dai nonni. A volte i miei amici scherzando, dicono: “Eh tu saresti uno scrittore?!” perché spesso mi esprimo in dialetto, ricerco il termine, mi incuriosisco nell’ascoltare dialetti di altre zone. C’è cultura vera e senso pratico di vita. Credo che il mio legame col territorio si sia rafforzato con l’esperienza teatrale: si recitava con copioni scritti in vernacolo, con termini che utilizzavano i nostri antenati, si rappresentava una quotidianità indietro negli anni ma fortemente “romantica” perché schiva da abitudini che l’età moderna ci ha regalato suo malgrado. Se dovessi fare un esempio, oggi non si “vive” più la casa come un tempo, non c’è più la cultura del tanto rimpianto “focolare domestico”.

Dovessi raccontarmi una fotografia, una di famiglia o di un particolare momento della tua vita, come sarebbe?
C’è una foto di quand’ero bambino che a vederla non dice nulla, ma ad averla vissuta, mi fa sorridere e sussultare di una certa nostalgia positiva. La foto mi ritrae in un parco - uno di quei classici luoghi da pic-nic - una distesa verde sconfinata, in un pomeriggio di agosto di tantissimi anni fa, con indosso un paio di pantaloncini e una maglietta tanto anonima quanto ridicola. Avevo un SuperTele sotto un piede, nella famosa posa di un campione di calcio, un certo Maradona. Le mani sui fianchi, la gamba in posa e una testa arruffata da capelli scombinati. La mia espressione non era affatto spontanea, direi istigata da tutto quel gruppo che si nascondeva dietro la macchina fotografica: i miei genitori, i miei zii, mia cugina e mia sorella. Cosa ha di bello questa foto? Il semplice fatto di ricordare vacanze di un tempo, tutti insieme, nella stessa località che tanto ci piaceva, in un periodo in cui forse c’era più naturalezza nei modi, dove la vacanza era andare in villeggiatura, dove pur senza tanta tecnologia ci si arricchiva semplicemente facendo scampagnate. In questa foto sento ancora le voci di quel bel gruppo che faceva il tifo per me: “Dai, mettiti in posa come Maradona! Che campione che sei!”. A quei tempi ci sentivamo tutti un po’ campioni. Oggi forse, qualche piccola partita, in questa umanità poco umana a volte, l’abbiamo persa.

Frequenti il Seminario ma prima della maturità lasci, credi che la vita sia fuori ed è da lì che bisogna iniziare, con il passare degli anni ti sei pentito di questa scelta?
Aver lasciato una comunità come quella del Seminario a volte mi fa pensare, ma senza rimorsi o pentimenti. Mi fa pensare perché ritengo che in quegli anni è come se avessi riempito una valigia con tutto ciò che mi sarebbe servito per affrontare la vita, in generale, come consacrato, o come laico. Gli anni del Seminario li reputo gli anni nella quale si è plasmata la mia coscienza di uomo prima, di cristiano poi. Aver scelto di lasciare quella realtà è stato un punto di partenza, un banco di prova sul quale mettermi in gioco e dimostrare che tipo di “uomo” ero diventato. Vivere la comunità, adempiere ai miei doveri, condividere momenti di gioia e di sconforto mi ha reso più forte e allo stesso tempo disponibile. Disponibile al prossimo. 

Tommaso come la maggior parte degli autori ti riscopri tale gradualmente ed inizi quasi per gioco, se la memoria non mi tradisce inizi con una silloge, ricordi il momento in cui hai dato un “nome” alla tua passione?
I primi scarabocchi erano pensieri nascosti su fogli di carta, un quaderno. Scrivevo perché ero timido, impacciato, incapace ad urlare e a farmi valere con la “forza”. Scrivevo per me, per urlarmi in faccia sentimenti ed educarli allo stesso tempo. Al solo pensiero che qualcuno avrebbe potuto leggere i miei componimenti arrossivo, era come se mi denudassero pubblicamente. Con la maturità è arrivato il momento nel quale ho iniziato a credere che i miei versi avessero potuto raccontare qualcosa anche ad altre “coscienze”: sono uscito fuori dal guscio con prepotenza. La mia prima silloge, presentata e premiata in un concorso nazionale di prosa e poesia, si intitolava “Dentro e fuori il carapace”, una metafora diretta, chiara, coerente con ciò che ritenevo essere il mio battesimo con la scrittura. Erano poesie che rimbalzavano fuori dal petto, dal guscio della vergogna perché volevo mettermi in gioco e raccontare un po’ di me attraverso l’immagine di una tartaruga (animale che mi ha sempre incuriosito tanto da farne una passione). 

La vita ti ha portato a percorrere un sentiero particolare, a mio avviso singolare, infatti leggendo la tua biografia ho letto di una persona che dall’adolescenza alla maturità ha percorso se stesso, hai scrutato molto quello che ti rappresenta dentro, scoprendo chi sei e cosa ti piace realmente fare nella vita. Ad un certo punto sei entrato a far parte di una compagnia teatrale, quanto ti ha regalato quest’esperienza e soprattutto con quali occhi l’hai vissuta e la vivi tuttora, magari anche solo ricordandola.
L’esperienza teatrale è un altro periodo importante perché per quel che mi riguardava, si trattava di “metterci la faccia” e rendersi anche ridicoli dinanzi ad un pubblico che ti avrebbe riconosciuto il giorno seguente in coda alla posta. Non era semplice: la timidezza doveva esser vinta vestendo gli abiti di personaggi così lontani da me che in qualche modo, ero autorizzato a trasformarmi. Quasi dieci anni di commedie, prove, repliche, applausi e ansia. Un mix di adrenalina e coraggio che credo sia stata la chiave per farmi uscire allo scoperto. È proprio in quegli anni che anche la mia scrittura vien fuori pubblicamente. Tornerei volentieri sul palco, magari interpretando commedie scritte da me: questo è un piccolo sogno che credo possa chiudere un cerchio forse ancora aperto.

Cosa guardano oggi gli occhi di Tommaso Occhiogrosso nella vita di tutti i giorni?
Pessima domanda per uno scrittore! Ovviamente scherzo. Una volta mi sono incantato a guardare la gente in attesa in stazione; un’altra, il lavoro di un pizzaiolo che senza sosta e con le mani infarinate, quasi toglieva il respiro all’incredulità per quanta gente è riuscita a rendere felice quella sera; un’altra volta ancora, la testa bassa di una ragazza che non si era accorta che quasi la stavo investendo, perché mi è sbucata all’improvviso davanti; ultimamente ho guardato un cane che ululava in mezzo ad un prato, solo.    I miei occhi vedono e voglio vedere solo ciò che emoziona, ciò che rende vivi, ciò che ci fa mordere le labbra per un errore commesso. Guardo il lato umano dell’uomo e di ogni singola creatura, e me ne innamoro tutte le volte.

Approdi anche tu tra gli autori di David and Matthaus, diverse sono le tue pubblicazioni promosse dal gruppo editoriale, cosa urli nelle tue pagine?
Maledettamente Umanità. Il lato tenero dell’uomo, quello che sa sbagliare con facilità ma riesce a redimersi attraverso un percorso di auto coscienza. Non sopporto gli urlatori, quelli che condannano senza ascoltare,  quelli che non solo hanno sempre un dito puntato contro ma sono sempre pronti a dare un peso a tuoi sogni. Ecco, questo tipo di personaggi, sono i miei antagonisti prediletti. I miei eroi sanno piangere e non se ne vergognano; sbagliano e alzano la mano per dire “è colpa mia”; seguono la follia perché l’istinto di un sentimento non vale un rimorso. Urlano col cuore e con la coscienza, mai con la voce.


Particolare attenzione, tra i tuoi lavori, la riscuote “Metà carne, metà ricordo” vuoi parlarcene?
Fra tante cose che si son dette su questo romanzo, quella che più si avvicina alle intenzioni è racchiusa nella frase in copertina di un numero del Magazine Anima Mista della David and Matthaus Edizioni (leggi
“Se tutti scelgono il meglio, io voglio il peggio”.
L’idea di ricercare attraverso un personaggio folle, un borderline, la redenzione dalle paure, ha generato il desiderio di parlare e rappresentare un angolo buio dell’uomo, quella taverna in cui spesso isoliamo il peccato più grande contro noi stessi: la paura di aver paura. Non a caso tutti i clienti di Hektor, il protagonista artista di candele, partono da un gap, da una mancanza e non  se ne vergognano. Al di fuori di ogni metafora o immagine narrativa, credo che questo lavoro riscopra la bellezza delle imperfezioni, di coloro che a volte ignoriamo perché non sono il prototipo dell’uomo perfetto ( e mi verrebbe da chiedere “cosa è perfezione”!). È il romanzo degli ultimi, di quelli a cui nessuno presta attenzione, di quelli che non ce la fanno. Di quelli che insomma, non riscuotono il successo di cure. Hektor cerca costoro per illuminarli. Hektor vuole il peggio, perché potrà redimersi dalla sua stessa malattia. Un romanzo in cui l’amore si svela con un volto nuovo, un volto davvero umano e senza involucri di rime o spettacolari manifestazioni. “Metà carne, metà ricordo” è il romanzo in cui l’amore si spoglia dei canoni e si sporca con la stessa pasta dell’uomo: carne e ricordo.


Finisce qui la nostra chiacchierata Tommaso, è costume del nostro salotto salutare i lettori con un omaggio dell’autore, salutandoti e ringraziandoti ti chiedo: e tu cosa ci regali?
Grazie a te Vincenzo per l’ospitalità e questa bella chiacchierata. Ai lettori del tuo salotto regalo un mio “gioco” adolescenziale, presente nella silloge prima citata, forse mai uscita fuori prima d’ora.


Filosofia sott’acqua

il
  livello medio d’orizzonte
 è 
basso,
       sottostò con 
innocuo fastidio.
il
 culmine del mio soffitto 
             vitale
o  d  g   i
   n  e  g  a
alle vibrazioni
giù dal pavimento.
Distorsioni ottiche
            e
miraggi effettuali 
         deviano
la visione dei miei
  GAMBERETTI,
a testa alta
  osservo e
   attendo...
qualche fesso ci penserà!
Quaggiù l’importante
   è
L’essenziale.
…e senza altri vizi,
ho smesso pure di 
f u m a r e!

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