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lunedì 12 maggio 2014

Gara di Lettere d'amore - si classifica al TERZO POSTO ex aequo CHIARA DELAINI

Backup (remastered)

Novecento pagine di parole, quattrocento ottantuno fotografie, centodieci email, venticinque post di blog, otto mesi e diciannove giorni.
Si sa, io sono una che li sa fare bene, i conti. Non dimentico niente: riavvolgo il nastro, lo svolgo, lo riedito. Raccolgo ogni singola immagine sinestestica per insinuare profumi, colori e brividi nella parola scritta. Per me e per te: la stregatta e il guerriero maori, quelli che davvero la possono fare, la grande magia della notte dei desideri.
Torno indietro, tra il brivido e il sorriso, fino a quel testacoda che ha improvvisamente invertito il senso e la direzione della mia vita e mi ha fatto imboccare la strada per questa strana felicità priva di punti d'appoggio che stiamo percorrendo assieme.
Tu ed io, figli di un momento di panico, di date di nascita che parlano di responsabilità e scelta, di segni di terra e ascendenti di cielo, di vite combinate perfettamente in una impossibilità logica.
Siamo figli di un viaggio in macchina verso l’occasum, di un abbraccio infinito al crepuscolo e della prima volta che abbiamo sentito che stare vicini era meglio di ogni altra scelta.

Un messaggio, un sorriso, un rossore di gote. La prima volta che abbiamo fatto colazione assieme. Una mattina di aprile un po’ grigia, se non fosse che arrivi tu e c’è il sole. Il tuo abbraccio silenzioso, il tuo primo bacio delicato sul mio collo teso. Lo sguardo spaesato, le braccia fortissime, lo spessore solido dell’uomo incredibile che sei, nelle viscere e nell’anima. La mia pelle di seta che trema, incredula, i miei occhi spalancati per questa vibrazione fortissima e imprevista.

Intere domeniche pomeriggio a raccontarci la vita al telefono e tu che dici che avresti bisogno di essere trattato come un re, che ne so, una volta ogni tanto.
Un re.
Il mio re.
Seconda nota di una vita stonata, primo pensiero del mattino che inizia ed ultimo della notte che viene.
Sembravi non capire che io, semplicemente amandoti, faccio di te il re di ogni mia giornata. Anche se sono maldestra e non so girare la frittata.
Una mattina di pioggia nella città di Colombo, la mia adorata Genova, e tu che mi dici: “Come sei bella. Perché sei così bella?” Ma Chi, io?!
La prima notte che hai dormito qui, la passione per la pietra ollare e la palla ovale.
Il tuo compleanno, il primo regalo che ti ho fatto: Gino Paoli che canta di una lunga storia d’amore: “e fai finta di non lasciarmi mai…” Invece lo fai. Mi lasci? L’hai già fatto una volta. Mi lasci e parti.
Provi a resistere, anche io. Anche se ascoltiamo Vasco in cuffia a mille chilometri di distanza.
Volo nelle braccia delle mie sorelle stonate del mare a fare la diva ad una festa per distrarmi, ma penso solo a te. E tu lo sai.
Beviamo un caffè?
Un caffè? Noi due? 
E di nuovo noi, le dita nelle dita, la carta della sigaretta che brucia, l'autoradio che urla forte, un prato di fronte al mare alle quattro del pomeriggio.
Torni, te ne vai, ritorni, te ne vai di nuovo, come un’onda del mare sulla mia pelle diventata battigia. Ed io scrivo, scrivo, scrivo. Mai tante parole come in questa fine di primavera.
Scopro il senso dell’amore perduto ma non mi viene una canzone. Esco tutte le sere, cercando di non amarti. Bevo, ballo, accetto inviti di cui non mi interesso minimamente. Ma poi brindo alla tua con prosecco e fragole e tu ti immergi nell’acqua a cercare il senso della vita nella profondità del respiro. E come nell'eterno ritorno di Nietsche, sei ancora qui.
Tu, io, e la strana percezione, dal tappeto arancio, che oltre la porta finestra, dietro quegli alberi, ci sia davvero il mare.
Quello che si sente, in certi attimi, è un silenzio che odora di legna bruciata, ed è davvero troppo forte: troppe ore a parlare, troppa intesa concentrata, troppe scene di vita quotidiana. Noi due siamo troppo. Un arcobaleno di emozioni cangianti steso in un cielo che non ha orizzonte su cui fermarsi.
Dici che te ne devi andare. E stavolta te lo lascio fare, davvero.
Vado in montagna, è estate: quelle con le gambe lunghe, d'estate, camminano tra gli alberi e annusano il profumo verde e azzurro dell'aria aperta. Vado a raccogliere le pignette di pino mugo che mi salveranno dalla tosse furiosa di questo autunno che piano piano si riempie di neve, e tu mi scrivi, mentre mi sai lontana. E mi chiami ‘luce’. Nessuno mi ha mai dato un nome così bello.
In questo luglio rovente in cui vivo sola anche se mi addormento e mi sveglio con te, torni a rapirmi l’anima, senza nemmeno sapere perché, e mi porti in un parco naturale di cui ricordo solo una panchina e un tavolo di legno da cui mi guardi fisso fino in fondo, fino a dentro agli occhi.
Nella magia opalescente di questi giorni fitti di lavoro e musica, con te che rifletti nella nebbia ed io che divoro il primo romanzo di Gramellini, vado al Forte di Bard, col tuo amico e la mia amica, come ci fossi anche tu, a sentire dal vivo il più bel regalo che abbia mai ricevuto: Einaudi e Fresu che suonano, assieme. Lo scopro sotto la pioggia battente, che ti amo, ma non te lo dico.
Dammi mille baci, e poi cento, e poi ancora mille, colore. Dammi tutti i baci che hai da dare in questa vita. Io te ne darò di più.
I giorni passano, voraci, il presente scorre, tra una pizza e il riso nero, la birra chiara e il Ramitello, e l’ultima settimana di settembre è forse la più bella che trascorriamo assieme. Arrivi una mattina a svegliarmi e lasci qui una parte di te. Torno a casa la sera con una orchidea tra le mani e ti trovo che mi chiedi come mai non ti ho chiamato per chiederti una mano.
Poi però mi arriva addosso la tristezza di un venerdì sera in cui non possiamo stringerci forte, e come sempre presento il futuro: stavolta te ne andrai davvero.
È domenica, e tu *scrolli* di nuovo, così tanto che anche qui arriva il contraccolpo e tutto diventa improvvisamente grigio pesto.
Stavolta te ne vai davvero ed io non posso che aprire le braccia e dirti che ti amo dopo che per quindici ore hai potuto immaginare che io e te fossimo davvero una cosa sola.
Ho passato tre settimane d’inferno, a non cercarti.
Hai passato tre settimane d’inferno a fingere di non volermi e sentirti respingere quando mi hai raggiunta, perché nemmeno riuscivo a respirare.
E poi un altro viaggio, un’altra colazione, un altro abbraccio: un’altra occasione per capire che non c’è niente che ci possa tenere separati, disgiunti.
“Perché l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente”. Ed è per questo che scelgo te. Per quello che sento. Perchè non voglio mai più vivere un solo attimo senza sentire niente.
L’eventualità di amarti è il dono più grande che abbia ricevuto dalla vita, la scelta più importante che ho fatto, la strada più bella che ho intrapreso.
La tua voce mi solleva, le tue braccia mi rassicurano. O era il viceversa?
Il sogno di un futuro con te scandisce il tempo delle mie lunghissime giornate di lavoro e delle mie brevi notti insonni.
Voglio regalarti attenzione e fatica. Coccole quando sorridi e carezze quando sei stanco. Silenzi quando sei grigio, e orecchie sollecite ogni volta che hai voglia di parlare.
Voglio donarti energia per le decisioni difficili, condivisione per le scelte di ogni giorno, voglio con te assaporare le vittorie e ingoiare le sconfitte.
Voglio dividere il tempo e lo spazio, donandoci la splendida libertà di essere sempre quello che siamo, anche diversi, sentendoci ogni giorno re e regina della faticosa partita di scacchi che è la nostra vita, piena di cose piccole e bellissime.
Voglio il caffè nero, le sigarette, le cicche dimenticate in giro e il tuo accappatoio rosso che mi va troppo grande, ma tu hai già usato il mio.
Voglio mettere i piedi nella neve e noleggiare gli sci, nuotare in mare aperto, respirare l’aria in montagna e sopportare la vertigine del desiderio di volare, regalarti favole da leggere ad alta voce, ragionare di futuro, di spazio, di passione e di possibilità.

Voglio il domani con te, luce selvatica dei miei occhi sottili da guerriera, qualunque sia lo sforzo che la vita mi chiederà perché sia vero.

AUTRICE CHIARA DELAINI


"In informatica per “backup” si intende una replicazione al fine di non perdere, in maniera definitiva, la memoria dei dati. Mentre “remastered” è un intervento volto a migliorare la resa, per esempio di un brano musicale, se si tratta di musica. Evocativo quindi è il titolo di questa lettera, in cui l’autrice fa un bilancio della sua storia d’amore, analizzando quello che c’è, anelando a quello che non c’è, e proponendosi dei traguardi, per quanto difficili da raggiungere. Per non dimenticare e per migliorare questo rapporto. Fra la “stregatta” e il “guerriero maori” vi è una felicità “priva di punti d’appoggio”. Essi sono “figli di un momento di panico”, ed il loro amore è paragonato ad un’onda del mare, che si infrange sulla battigia, e poi, puntualmente si ritrae. Lui sfiora quella sabbia, come fosse la pelle della donna, ma non può essere completamente suo, e quindi, come fosse un ciclo di eterno ritorno, appare e poi scompare nella sua vita. Incapace di sparire del tutto. Un sentimento che è necessario ad entrambi, per sentirsi vivi ed evitare di arrivare ad inaridirsi. Un amore che sogna un domani insieme, nonostante le difficoltà della vita. Vi è passione in queste parole, lo si evince dal fatto che tutti i sensi sono chiamati in causa, con proprietà di linguaggio. Una prosa musicale, una prova sicuramente ben riuscita."

per la Commissione

Cristina Biolcati



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