Backup
(remastered)
Novecento pagine di parole, quattrocento
ottantuno fotografie, centodieci email, venticinque post di blog, otto mesi e
diciannove giorni.
Si sa, io sono una che li sa
fare bene, i conti. Non dimentico niente: riavvolgo il nastro, lo svolgo,
lo riedito. Raccolgo ogni singola immagine sinestestica per insinuare profumi,
colori e brividi nella parola scritta. Per me e per te: la stregatta e il
guerriero maori, quelli che davvero la possono fare, la grande magia della
notte dei desideri.
Torno indietro, tra il brivido e
il sorriso, fino a quel testacoda che ha improvvisamente invertito il senso e
la direzione della mia vita e mi ha fatto imboccare la strada per questa strana
felicità priva di punti d'appoggio che stiamo percorrendo assieme.
Tu ed io, figli di un momento di
panico, di date di nascita che parlano di responsabilità e scelta, di segni di
terra e ascendenti di cielo, di vite combinate perfettamente in una impossibilità
logica.
Siamo figli di un viaggio in
macchina verso l’occasum, di un abbraccio infinito al crepuscolo e della prima
volta che abbiamo sentito che stare vicini era meglio di ogni altra scelta.
Un messaggio, un sorriso, un
rossore di gote. La prima volta che abbiamo fatto colazione assieme. Una
mattina di aprile un po’ grigia, se non fosse che arrivi tu e c’è il sole. Il
tuo abbraccio silenzioso, il tuo primo bacio delicato sul mio collo teso. Lo
sguardo spaesato, le braccia fortissime, lo spessore solido dell’uomo
incredibile che sei, nelle viscere e nell’anima. La mia pelle di seta che
trema, incredula, i miei occhi spalancati per questa vibrazione fortissima e
imprevista.
Intere domeniche pomeriggio a
raccontarci la vita al telefono e tu che dici che avresti bisogno di essere
trattato come un re, che ne so, una volta ogni tanto.
Un re.
Il mio re.
Seconda nota di una vita
stonata, primo pensiero del mattino che inizia ed ultimo della notte che viene.
Sembravi non capire che io,
semplicemente amandoti, faccio di te il re di ogni mia giornata. Anche se sono
maldestra e non so girare la frittata.
Una mattina di pioggia nella
città di Colombo, la mia adorata Genova, e tu che mi dici: “Come sei bella.
Perché sei così bella?” Ma Chi, io?!
La prima notte che hai dormito
qui, la passione per la pietra ollare e la palla ovale.
Il tuo compleanno, il primo
regalo che ti ho fatto: Gino Paoli che canta di una lunga storia d’amore:
“e fai finta di non lasciarmi mai…” Invece lo fai. Mi lasci? L’hai già fatto
una volta. Mi lasci e parti.
Provi a resistere, anche
io. Anche se ascoltiamo Vasco in cuffia a mille chilometri di distanza.
Volo nelle braccia delle mie
sorelle stonate del mare a fare la diva ad una festa per distrarmi, ma penso
solo a te. E tu lo sai.
Beviamo un caffè?
Un caffè? Noi due?
E di nuovo noi, le dita nelle
dita, la carta della sigaretta che brucia, l'autoradio che urla forte, un prato
di fronte al mare alle quattro del pomeriggio.
Torni, te ne vai, ritorni, te ne
vai di nuovo, come un’onda del mare sulla mia pelle diventata battigia. Ed io
scrivo, scrivo, scrivo. Mai tante parole come in questa fine di primavera.
Scopro il senso dell’amore perduto
ma non mi viene una canzone. Esco tutte le sere, cercando di non amarti. Bevo,
ballo, accetto inviti di cui non mi interesso minimamente. Ma poi brindo alla
tua con prosecco e fragole e tu ti immergi nell’acqua a cercare il senso della
vita nella profondità del respiro. E come nell'eterno ritorno di Nietsche,
sei ancora qui.
Tu, io, e la strana percezione,
dal tappeto arancio, che oltre la porta finestra, dietro quegli alberi, ci sia
davvero il mare.
Quello che si sente, in certi
attimi, è un silenzio che odora di legna bruciata, ed è davvero troppo forte:
troppe ore a parlare, troppa intesa concentrata, troppe scene di vita
quotidiana. Noi due siamo troppo. Un arcobaleno di emozioni cangianti
steso in un cielo che non ha orizzonte su cui fermarsi.
Dici che te ne devi
andare. E stavolta te lo lascio fare, davvero.
Vado in montagna, è estate:
quelle con le gambe lunghe, d'estate, camminano tra gli alberi e annusano il
profumo verde e azzurro dell'aria aperta. Vado a raccogliere le pignette di
pino mugo che mi salveranno dalla tosse furiosa di questo autunno che piano
piano si riempie di neve, e tu mi scrivi, mentre mi sai lontana. E mi chiami
‘luce’. Nessuno mi ha mai dato un nome così bello.
In questo luglio rovente in cui
vivo sola anche se mi addormento e mi sveglio con te, torni a rapirmi l’anima,
senza nemmeno sapere perché, e mi porti in un parco naturale di cui ricordo
solo una panchina e un tavolo di legno da cui mi guardi fisso fino in fondo,
fino a dentro agli occhi.
Nella magia opalescente di
questi giorni fitti di lavoro e musica, con te che rifletti nella nebbia ed io
che divoro il primo romanzo di Gramellini, vado al Forte di Bard, col tuo amico
e la mia amica, come ci fossi anche tu, a sentire dal vivo il più bel regalo
che abbia mai ricevuto: Einaudi e Fresu che suonano, assieme. Lo scopro sotto
la pioggia battente, che ti amo, ma non te lo dico.
Dammi mille baci, e poi cento, e
poi ancora mille, colore. Dammi tutti i baci che hai da dare in questa vita. Io
te ne darò di più.
I giorni passano, voraci, il
presente scorre, tra una pizza e il riso nero, la birra chiara e il Ramitello,
e l’ultima settimana di settembre è forse la più bella che trascorriamo
assieme. Arrivi una mattina a svegliarmi e lasci qui una parte di te. Torno a casa
la sera con una orchidea tra le mani e ti trovo che mi chiedi come mai non ti
ho chiamato per chiederti una mano.
Poi però mi arriva addosso la
tristezza di un venerdì sera in cui non possiamo stringerci forte, e come
sempre presento il futuro: stavolta te ne andrai davvero.
È domenica, e tu *scrolli* di
nuovo, così tanto che anche qui arriva il contraccolpo e tutto diventa
improvvisamente grigio pesto.
Stavolta te ne vai davvero ed io
non posso che aprire le braccia e dirti che ti amo dopo che per quindici ore
hai potuto immaginare che io e te fossimo davvero una cosa sola.
Ho passato tre settimane
d’inferno, a non cercarti.
Hai passato tre settimane
d’inferno a fingere di non volermi e sentirti respingere quando mi hai
raggiunta, perché nemmeno riuscivo a respirare.
E poi un altro viaggio, un’altra
colazione, un altro abbraccio: un’altra occasione per capire che non c’è niente
che ci possa tenere separati, disgiunti.
“Perché l’unico pericolo che
sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente”. Ed è per questo
che scelgo te. Per quello che sento. Perchè non voglio mai più vivere un solo
attimo senza sentire niente.
L’eventualità di amarti è il
dono più grande che abbia ricevuto dalla vita, la scelta più importante che ho
fatto, la strada più bella che ho intrapreso.
La tua voce mi solleva, le tue
braccia mi rassicurano. O era il viceversa?
Il sogno di un futuro con te
scandisce il tempo delle mie lunghissime giornate di lavoro e delle mie brevi
notti insonni.
Voglio regalarti attenzione e
fatica. Coccole quando sorridi e carezze quando sei stanco. Silenzi quando sei
grigio, e orecchie sollecite ogni volta che hai voglia di parlare.
Voglio donarti energia per le
decisioni difficili, condivisione per le scelte di ogni giorno, voglio con te
assaporare le vittorie e ingoiare le sconfitte.
Voglio dividere il tempo e lo
spazio, donandoci la splendida libertà di essere sempre quello che siamo, anche
diversi, sentendoci ogni giorno re e regina della faticosa partita di scacchi
che è la nostra vita, piena di cose piccole e bellissime.
Voglio il caffè nero, le
sigarette, le cicche dimenticate in giro e il tuo accappatoio rosso che mi va
troppo grande, ma tu hai già usato il mio.
Voglio mettere i piedi nella
neve e noleggiare gli sci, nuotare in mare aperto, respirare l’aria in montagna
e sopportare la vertigine del desiderio di volare, regalarti favole da leggere
ad alta voce, ragionare di futuro, di spazio, di passione e di possibilità.
Voglio il domani con te, luce
selvatica dei miei occhi sottili da guerriera, qualunque sia lo sforzo che la
vita mi chiederà perché sia vero.
AUTRICE CHIARA DELAINI
AUTRICE CHIARA DELAINI
"In informatica per “backup” si
intende una replicazione al fine di non perdere, in maniera definitiva, la
memoria dei dati. Mentre “remastered” è un intervento volto a migliorare la
resa, per esempio di un brano musicale, se si tratta di musica. Evocativo
quindi è il titolo di questa lettera, in cui l’autrice fa un bilancio della sua
storia d’amore, analizzando quello che c’è, anelando a quello che non c’è, e
proponendosi dei traguardi, per quanto difficili da raggiungere. Per non
dimenticare e per migliorare questo rapporto. Fra la “stregatta” e il
“guerriero maori” vi è una felicità “priva di punti d’appoggio”. Essi sono
“figli di un momento di panico”, ed il loro amore è paragonato ad un’onda del
mare, che si infrange sulla battigia, e poi, puntualmente si ritrae. Lui sfiora
quella sabbia, come fosse la pelle della donna, ma non può essere completamente
suo, e quindi, come fosse un ciclo di eterno ritorno, appare e poi scompare
nella sua vita. Incapace di sparire del tutto. Un sentimento che è necessario
ad entrambi, per sentirsi vivi ed evitare di arrivare ad inaridirsi. Un amore
che sogna un domani insieme, nonostante le difficoltà della vita. Vi è passione
in queste parole, lo si evince dal fatto che tutti i sensi sono chiamati in
causa, con proprietà di linguaggio. Una prosa musicale, una prova sicuramente
ben riuscita."
per la Commissione
Cristina Biolcati
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